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La Bibbia e la comunità generante

La cicogna nel cielo conosce il tempo per migrare, la tortora, la rondinella e la gru osservano il tempo del ritorno; il popolo mio, invece, non conosce il giudizio del Signore. Come potete dire: «Noi siamo saggi perché abbiamo la legge del Signore»? A menzogna l’ha ridotta lo stilo menzognero degli scribi!  (Ger 8,7-8). Il cruccio filologico, il bisogno di confrontare testo con testo, d’entrare nei meandri dell’interpretazione, è vecchio quanto la Scrittura. Mosè spezzò le tavole vergate dal dito di Dio, perché chi aveva adorato il vitello non ne facesse un nuovo feticcio. Es 34,2728 afferma che le tavole nuove, quelle che vennero chiuse nell’arca, le scrisse Mosè con la sua mano d’uomo. Anche Gesù, un giorno, si burlò d’un raffinato cultore del testo:    Un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?»  (Lc 10,25-26). La seconda domanda non è oziosa ripetizione della prima: la trascrizione manoscritta, non sempre accurata, non sempre onesta, obbligava sin dalla scuola i futuri scribi e dottori a correggere, comparandoli, i manoscritti in loro possesso. La critica del testo biblico, dunque, nasce già nella Bibbia, nei dubbi di Geremia sul menzognero calamo dei copisti, in Gesù che constata l’enorme distanza fra lo scritto e la lettura. Anche nella storia della Chiesa, il Grande Codice fu considerato cava da cui estrarre versetti infallibili perché rapiti al loro contesto e denucleati della loro significazione, o unico orizzonte in cui circoscrivere il pensiero su Dio e sul creato. Forse per questo, malgrado l’acume filologico del Padri della Chiesa, un sospetto di razionalismo distruttivo accompagna da sempre lo studio critico della Scrittura.

Lagrange: interrogare criticamente il testo.  Dobbiamo a Leone XIII e alla Providentissimus Deus (1893) l’apertura ufficiale dell’esegesi cattolica all’orizzonte critico dei tempi moderni, ma il terreno era stato preparato da studiosi come Marie-Joseph Lagrange. Il celebre domenicano, che già nel 1890 aveva fondato a Gerusalemme una École pratique d’études bibliques, fu anticipatore e incarnazione del pensiero che trovò una prima espressione in Leone XIII e fu riconfermato, cinquant’anni dopo, da Pio XII, nella Divino afflante Spiritu: il testo non vive solo del testo, né delle letture e sistematizzazioni ideologiche che se ne possono trarre, vive anche della storia umana, dell’ambiente etnografico, geografico, fisico in cui ha visto la luce. Tuttavia, Lagrange, che pure dovette piegarsi a tutte le esigenze e ai rischi della ricerca filologica, archeologica, documentaria, non fu mai maestro del sospetto. Malgrado sia stato una delle vittime più illustri dello zelo antimodernista negli anni di Pio X, non si accontentò di interrogare il libro sulle sue incongruenze, ma sottomise a critica anche la nostra percezione del testo, lasciando che i dati rilevati dall’archeologo, dallo storico delle religioni o delle culture e dal filo logo, permettessero alla pagina, anche quando tradotta, di parlare la sua vera lingua e di dire le cose che voleva dire. L’eventuale adesione di fede, il dogma proclamato o la costruzione di una teologia sistematica (come la loro negazione) non possono prescindere da questi primi passi chiarificatori, anche se poi hanno modalità di conoscenza e d’adesione totalmente distinte dall’approccio scientifico.

Non c’è Bibbia senza comunità generante.  Lagrange volle stabilire la sua scuola a Gerusalemme, secondo una metodologia caratteristica del tempo che, a seguito dell’appropriazione coloniale dell’Oriente ottomano, vide nascere e moltiplicarsi gli scavi archeologici e gli studi etnografici. Il libro era nato in quella terra, e lì doveva essere studiato, lontano dalle aule europee, spesso travagliate da conflitti politici o confessionali. Lagrange era anche un frate, e stabilì la sua scuola in un convento. Non so quanto se ne rendesse conto, ma la sua intuizione fu generatrice di due vere e proprie chiavi di lettura del testo, destinate a lunga durata. In effetti, non c’è Bibbia senza comunità generante. Quello che chiamiamo Antico Testamento è, in gran parte, opera dei sacerdoti del tempio di Gerusalemme. Si perfeziona nelle sue aule la  Torah  , ovvero i cinque rotoli della Legge che descrivono minuziosamente il culto e dettano – intramezzato al racconto delle origini del mondo e del popolo – il «Codice di santità». Parlano della storia e del culto anche i  Nevyim , i libri dei profeti, molti dei quali (basti ricordare Isaia, Geremia, Ezechiele) sono sacerdoti. Solo alcuni degli «scritti», i    Ketuvim , non originano nel tempio, che resta tuttavia protagonista del maggiore di essi, il libro dei Salmi. L’Antico Testamento è, dunque, il frutto della meditazione sacerdotale, protratta lungo alcuni secoli in una città santuario: Gerusalemme. Solo dopo la caduta e la distruzione della città il testo passò agli scribi e alle scuole dei commentatori, che l’hanno incessantemente attualizzato nelle diversissime situazioni create dalla diaspora. Il Nuovo Testamento ha origini più popolari, si tratta di racconti trasmessi a voce sulle prime e di lettere in buona parte occasionali. Le Chiese che lo produssero non avevano templi o sacrifici: i primi scrittori cristiani conoscevano meglio le stive delle navi romane e le piste sassose che gli atri di una qualsiasi delle curie del tempo. Eppure, in buona misura, anch’esso cela l’opera di almeno tre comunità di credenti, determinate a conservare memoria dell’Evento: l   équipe    di missionari collaboratori e successori di Paolo, la «scuola giovannea», i cristiani di Gerusalemme raccolti attorno a Giacomo o alla casa di Betania. Forse bisognerebbe aggiungere alla lista i nazareni, cristiani di Galilea e della Siria meridionale. Si tratta sempre, ad ogni modo, di comunità che formano lo scrivente, ne motivano l’opera e ne trasmettono il testo. L’individuo, l’autore umano, è evidentemente indispensabile, ma nessuno può negare che (a parte Dio) la Bibbia non ebbe un unico autore.

Un convento e la comunità di studio.  Una comunità, una realtà alla quale si arriva assieme ( con-ventus ) dalle più diverse esperienze, non è certo l’unico ambito in cui studiare la Scrittura, è ovvio, ma è un ambito privilegiato: l’interazione fra i testi, fra le diverse prospettive e i diversi libri della Bibbia, diviene interazione fra persone, poiché – in certo senso – lo specialista di questo o quel libro lo incarna. Intanto, l’ha scelto come campo di ricerca perché lo sentiva consono; poi si è pian piano assimilato alla porzione di mondo e di testo che gli è dato studiare; infine, fa egli stesso scuola e comunità quando altri, studenti o colleghi, vengono a cercarlo per parlare con lui. La comunità dell’   École biblique    non è solo il convento domenicano che la ospita e la anima: è una sorta di scuola socratica o di convivenza temporanea fra donne e uomini, religiosi e laici, credenti o non credenti delle più varie fedi e idealità, che si ritrovano per capire un luogo e un testo. Chi abbia letto i due volumi che, a cent’anni dalla fondazione, ripercorrono la storia dell’   École    (traduzione italiana    Cent’anni di esegesi  nella collana «Supplementi alla Rivista Biblica», EDB 1992), può ben rendersi conto di quanto l’esegeta di oggi si senta come l’onda che increspa per un attimo, ma anche se piccola spinge in avanti le acque di un grande torrente. Se di questo primo effetto dell’intuizione di Lagrange solo l’apertura oltre gli stretti confini del clero cattolico era all’epoca imprevedibile, il secondo effetto somigliava a un oscuro orizzonte: Gerusalemme, insanguinata e indolente, sarebbe diventata luogo d’incontro e di conflitto fra le religioni che a fine ottocento erano un dato di cultura, in pieno novecento sarebbero parse morenti e ora resuscitano brandite dai professionisti dell’odio e dagli utopisti comunque motivati. Leggere in tale contesto la Bibbia, e altra letteratura ad essa vicina o da essa derivata, è indispensabile per capirne gli effetti, siano essi postivi e salvifici o negativi, in molti angoli del mondo.

Dai libretti il Libro.  Questo intuì Lagrange, ai tempi della Providentissimus Deus. I suoi seguaci, dopo che in pieno conflitto mondiale Pio XII aveva appoggiato e incoraggiato lo studio scientifico della Scrittura anche laddove si faceva teologia, pensarono di mettere a frutto l’esperienza dei primi 50 anni dell’École, facendosi promotori d’una nuova edizione della Bibbia in lingua volgare, commentata da specialisti. Il progetto prese forma appena finita la guerra: fra il 1945 e il 1955 i libri della Scrittura furono pubblicati in fascicoletti, affidati ai più apprezzati specialisti francofoni in circolazione, corredati di un’ampia introduzione, di note esplicative e di un apparato di passi paralleli. Il formato era molto simile a quello dei volumetti su cui si studiavano i classici nelle scuole; le note testimoniano, spesso, d’una fase di passaggio, richiamando il testo latino, ancora il più conosciuto dal clero, ma suggerendo altrettanto spesso la molteplicità di letture e interpretazioni offerta dalla tradizione manoscritta come dal lessico, quando ricollocato nel suo contesto originale. La Bibbia in fascicoli rappresentava un’ulteriore novità: il Libro tornava a essere biblia, tanti libri, una biblioteca. Ciascun autore e ogni opera potevano così brillare di luce propria, mostrare la loro personalità originale e gli eventuali limiti, dettati dal tempo e dall’occasione di scrittura. Le introduzioni non nascondevano certo la storia redazionale del libro, le eventuali riverniciature, i problemi posti dalla tradizione manoscritta, ma cercavano anche d’enuclearne il messaggio teologico e il ruolo nel progresso della rivelazione. L’apparato dei passi paralleli creava una rete intertestuale, facendo sì che per un gioco di richiami e d’allusioni i libri parlassero fra loro e, in particolare, il Nuovo Testamento apparisse, a chi era abituato a teologie ormai distanti dal mondo semitico, radicato profondamente nell’Antico. Nel 1956, però, si pensò di ricompattare il Grande Codice e i fascicoli furono adattati e riuniti in un solo volume. Sulle prime l’opera assunse il nome più scontato La Sainte Bible, poi ci si rese conto che essa doveva troppo alla scuola e alla città in cui era nata e si chiamò La Bible de Jérusalem. Dopo il successo ottenuto da questa prima edizione, quasi tutte le Bibbie tradotte nelle tante lingue moderne adottarono lo stesso quadro editoriale: introduzioni, testo, note e passi paralleli. Queste Bibbie cercarono di diversificarsi nell’indole della traduzione (più o meno vicina al testo antico, più o meno accattivante e prossima al parlato), delle note (pastorali, liturgiche, morali) o delle forme tipografiche, ma restarono sempre, per così dire, figlie della Bibbia di Gerusalemme. Gli anni sessanta conobbero il Concilio, la riforma della liturgia, notevoli progressi nello studio dei tempi e degli scritti antichi e, soprattutto, un’accresciuta coscienza dei fenomeni linguistici e ideologici: questi fattori spinsero a una radicale revisione de La Bible de Jérusalem nei primi anni settanta. Il dialogo con gli altri cristiani e il Concilio, in particolare, avevano evidenziato che non si sarebbe più potuto fare una teologia che non fosse, in tutto o in parte, una teologia biblica. Per questo la revisione del 1973 assunse le caratteristiche d’una vera e propria riedizione: ampie note, soprattutto a commento del Nuovo Testamento, disegnavano brevi sommari, accompagnando una parola attraverso i libri della Bibbia. Queste note di sintesi erano segnalate da una crocetta a fianco del richiamo dei versetti a commento dei quali erano collocate. Un’altra rete, una sorta di mappa viaria attraverso il Grande Codice. Fu questa la Bible de Jérusalem le cui introduzioni, note, quadri cronologici e riassuntivi e indici tematici furono tradotti in italiano, e pubblicati a commento della traduzione ufficiale CEI nella Bibbia di Gerusalemme delle EDB. Tradotta in dodici lingue e pubblicata in una quarantina di paesi, la Bible de Jérusalem del 1973 ha rappresentato per moltissimi lettori e per molte comunità o movimenti lo strumento più completo e maneggevole per entrare nell’universo e nel testo della Scrittura.
       
L’aggiornamento necessario.  Tuttavia, col passare degli anni e l’affievolirsi della speranza di costruire una teologia biblica oggettiva, sistematica e onnicomprensiva, le note di sintesi furono percepite come troppo debitrici all’ideologia del commentatore e poco accomodate al dettaglio del testo. Così, dopo un ventennio, l’   École biblique    mise in cantiere una nuova revisione della    Bible de Jérusalem . La critica dell’Antico Testamento, del Pentateuco in particolare, era allora nel pieno della bufera: l’antica teoria delle quattro tradizioni, pur ancor solida nell’insieme, divenne poco utile per giudicare dell’origine e del messaggio dei singoli passaggi; la figura del profeta, un po’ maestro un po’ rivoluzionario, andava ricollocata nell’ambiente templare, ma, soprattutto, la datazione di alcuni testi ritenuti di venerabile vetustà andava rivista. Quanto al Nuovo Testamento (chi scrive fu arruolato a collaborare alla sua revisione causa la scomparsa del grande p. Spicq), decidemmo di recuperare lo spazio di alcune delle note di sintesi di cui s’è detto sopra, per far meglio risaltare la personalità del singolo libro  o autore. Per certi aspetti, è stato un ideale ritorno ai fascicoli: s’è cercato di presentare ogni sezione come se il lettore abbordasse per la prima volta e separatamente questo o quel vangelo, questa o quella lettera. Hanno trovato così largo spazio note critiche che, come era già avvenuto nelle precedenti edizioni, ma in forma più matura, mostrano e cercano di risolvere i problemi storici, filologici, di trasmissione testuale, per poi affrontare i nodi culturali e teologici, con grande attenzione alle odierne ricerche sul linguaggio. È questa l’edizione le cui note, introduzioni, quadri esplicativi e indici vengono oggi tradotti in italiano, per accompagnare la nuova traduzione della CEI.

La stessa Bibbia nel flusso delle parole. Quando apparve alla fine degli anni novanta, col titolo    La Bible de Jérusalem - Cerf , non mancarono le polemiche, compresa un’acida recensione che l’accusava di non aver neppure l’   imprimatur . Questo fu subito richiesto e concesso dal cardinal Pierre Eyt da Roma. Appurato che si tratta di una Bibbia leggibile e cattolica, non resta che da chiedersi se lo sarà anche da coloro che pensano che un’ostilità sorda e solo di rado superata separi fede e critica intelligente. In questa edizione, ma in parte questo era già chiaro nella precedente, si è tenuto conto del fatto che non solo i manoscritti hanno una storia di umana fatica, ma anche i libri biblici, che tali manoscritti s’incaricano di trasmettere, ne hanno una. Abbiamo dei libri «doppi», due redazioni di lunghezza e fattezze diverse. È il caso di Geremia, o degli Atti degli Apostoli. Abbiamo testi manifestamente riscritti, o doppioni all’interno dello stesso libro: soprattutto i brani legali, come è ovvio, paiono essere stati modificati per adeguarli a nuove situazioni. In altri termini: il testo canonico è come stretto da una parte dalla storia della sua redazione, delle sue varie riscritture, dall’altra dalla storia della sua trasmissione manoscritta.           

La fatica del tradurre. Fa parte della    tradizione  (nel senso etimo di «consegna») anche l’edizione in lingua moderna, corredata di note spesso più leggibili del testo, anche tradotto, perché più vicine alla nostra sensibilità. Questo impegna enormemente il redattore dei commenti e, in misura minore, il revisore ingaggiato nelle edizioni successive. Quest’ultimo è chiamato a una doppia fedeltà creati-va: fedeltà al testo in lingua originale, che bisogna far uscire dall’alveo d’una civiltà lontana e delle traduzioni canonizzate dall’uso perché risulti intelligibile nei decenni a venire, e fedeltà al primo commentatore, o almeno al suo metodo, pur tenendo conto dei progressi scientifici e della propria indole personale. Ma, anche attraverso tanti passaggi, la Bibbia è la Bibbia da sempre: una nuova edizione, una revisione delle note o anche della metodologia di lettura, serve a capire sempre meglio e a presentare nei termini più chiari quel testo, non un altro. Anche le glosse dei bizantini, o le miniature dei medioevali, erano delle note e richiamavano il messaggio del Grande Codice, affiancando il testo. Al nostro tempo, tanto sensibile alla storia, è opportuno mostrare che la Parola corre nel flusso delle parole che intessono un brano o lo generano, lo trasmettono, lo commentano, lo traducono, Se la prima è la dimensione sincronica incentrata sulla lettera, la seconda è la dimensione diacronica che coinvolge, lungo i secoli, generazioni di lettori.
Frà Paolo Garuti o.p.

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